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Razzismo – Calcio | Ferrier, Zoro, Eto’o, Omolade: al peggio non c’è MAI fine
Ogni volta si alza un polverone, parte il carrozzone della solidarietà, sul tavolo sbatte il pugno duro dell’agognata giustizia sportiva e non solo: poi però, alla fine della storia, ci si ritrova solo ed esclusivamente dinanzi ad un potenziale arrivederci.
Già, perché il caso Koulibaly non è il primo e, purtroppo, non sarà l’ultimo episodio di razzismo che balza alle cronache enfatizzato dalla clamorosa cassa di risonanza generata dal calcio professionistico.
Si parla di cultura, di ignoranza, di prassi mai desueta che molti provano a mitigare circoscrivendola a “semplice” forma di insulto verso un giocatore avversario.
Troppo poco e troppo semplice… tanto la diagnosi, quanto la cura.
Difficile imporre una regola e punire una squadra ed una platea per colpa del solito nugolo di facinorosi sempre pronti a colpire; un manipolo di soliti idioti che sembra ormai tara ineludibile di una Società Sportiva e Civile costretta (ed ormai tanto stoica, quanto avvilita) ad accettare supinamente la sua fisiologica presenza nel misurare il suo Peso specifico.
Zoro col Messina, Boateng col Milan, Eto’o con Inter e Barcellona; ma anche Omolade con la casacca del Treviso, senza dimenticare Maickel Ferrier, che nell’estate del 1996 fu “accolto” dalla tifoseria scaligera dell’Hellas Verona con un manichino col cappio al collo:
“Avevo 19 anni, firmai con l’Hellas tramite l’agente Mino Raiola – ha dichiarato Ferrier – Non fui accolto bene, sarei stato il primo giocatore nero lì e i tifosi non gradirono. C’era razzismo in città. Andai a Verona con mio padre ma trovammo un manichino nero impiccato allo stadio. Non fu una bella cosa, stracciamo il contratto”.
Ferrier vestì con poca fortuna le maglie di Salernitana e Catania, ma il suo nome restò indissolubilmente legato alla sua clamorosa vicenda che, come accade tutt’oggi, fu lasciata praticamente impunita.
Difficile e quasi impossibile arrivare ad una soluzione passando per sanzioni e gare interrotte. Serve un cambio culturale su tutta la linea: gli arbitri, la cultura del sospetto, la “discriminazione territoriale”, sono tutti sintomi di una patologia che riversa nel Mondo del Calcio gli istinti più beceri e nascosti.
Il Calcio deve essere la Gioia Massima di ogni singolo individuo, non il punto più basso di una Società che ogni volta riesce a dare il peggio di sé dentro ed attorno ad un rettangolo verde.
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